Quel made in Italy penalizzato in patria

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Burocrazia, costo del lavoro tra i più alti d’Europa, tassazione elevata e una concorrenza spregiudicata sono solo alcuni degli aspetti che quotidianamente le Pmi devono affrontare per continuare a essere competitive. Il Made in Italy da solo non basta: le istituzioni devono intervenire per regolamentare e proteggere le aziende italiane ed evitare che possano guardare con interesse oltre confine.

Lo sa bene Roberto Impero, a.d. di Sma Road Safety, eccellenza italiana nel mondo per quel che riguarda i dispositivi stradali salvavita, come le barriere laterali e gli attenuatori d’urto. «La concorrenza straniera ha dato vita a un dumping aggressivo che sta erodendo sempre più la competitività dei produttori nazionali», dice. «È indispensabile che le istituzioni prevedano controlli molto più severi sui prodotti esteri immessi nel nostro mercato, sia sulla solidità della stessa azienda produttrice. In Italia non è prevista una procedura di omologazione delle barriere stradali, è sufficiente la marcatura CE per autorizzarne vendita e installazione sulle nostre strade. Belgio, Norvegia, Irlanda, Germania, Medio Oriente o Usa richiedono procedure di controllo severissime, che possono durare più di 12 mesi, prima che il dispositivo venga immesso nell’elenco dei prodotti approvati». Non solo: «Costi di manodopera, normative sulla sostenibilità e la sicurezza dei lavoratori, contribuzione previdenziale, per non parlare del carico fiscale, sono un unicum del nostro Paese che pesa sulla competitività internazionale e nazionale. Nel nostro settore esiste anche un problema sociale e legale da non sottovalutare, legato all’affidabilità del produttore straniero. Cosa succede e chi risponde se queste barriere straniere, preposte a salvare vite umane, non dovessero funzionare? In che modo si potrà chiamare in causa il produttore che ha sede in Turchia, Albania o Estremo Oriente?».

Ma anche nel mondo dell’automazione, Paola Veglio, a capo di Brovind Vibratori che realizza macchinari per la produzione industriale, racconta come «grazie alla particolare ricerca tecnologica dei nostri macchinari riusciamo a tutelarci dalla concorrenza estera, sempre più agguerrita. Il vero problema è che le istituzioni sono anni luce lontano dalle aziende, soprattutto le Pmi. A volte mi chiedo come in Italia possano circolare certi materiali e come abbiano superato i controlli, che in teoria dovrebbero essere gli stessi che vengono imposti alle nostre macchine quando vengono esportate. Finché esistono queste disparità sarà sempre più difficile ottenere che le aziende “sane ed etiche” competano in maniera equa. Norme oggettive che impongano parametri su materiali, sicurezza, ambiente e tutela del personale, sarebbero di grande aiuto, anche se ammetto non sia semplice parametrizzare questi concetti».

E persino sul fronte delle energie rinnovabili, mercato in forte crescita, la questione della competitività tra aziende italiane e straniere richiede di essere presa in esame con urgenza, «la concorrenza, soprattutto asiatica, è soverchiante per il fotovoltaico Made in Italy – afferma Daniele Iudicone, Ceo di Imc Holding che da oltre un decennio si occupa di rinnovabili.

«In particolare la manodopera asiatica, a un costo estremamente più basso, rende molto più complessa la produzione sul suolo italiano. Inserendo incentivi e sgravi fiscali per i lavoratori del settore si potrebbe rendere la lavorazione più concorrenziale con l’estero».

Da un punto di vista normativo, spiega l’avvocato Fabio Maggesi, fondatore di MepLaw, «è il Made in Italy, per sua natura, ad aver difficoltà d’esportazione: in quanto prodotto d’eccellenza, risulta non replicabile e standardizzabile e si scontra per questo con svariate limitazioni imposte dai diversi Paesi stranieri. A questo si aggiunge l’imposizione fiscale italiana che lascia poco spazio alle aziende per investimenti oltre confine, che invece permetterebbero, soprattutto alle Pmi, di diversificare e aumentare il profitto world wide. Lo Stato italiano, a tutela del Made in Italy, dovrebbe imporre migliori linee comunicative per distinguere il prodotto “italiano” dal fake (o dal fac-simile). Spesso è proprio la mancanza di informazioni a non permettere di comprendere, al di fuori dei confini nazionali, le differenze tra ciò che è e ciò che vorrebbe essere, con conseguenti ingenti danni al nostro sistema produttivo e al prodotto realmente Made in Italy, in termini di sicurezza, salute e perdita di posti di lavoro. Ciò che si auspica è quindi certamente una maggiore qualificazione comunicativa del “prodotto 100% italiano” ed una migliore politica legata all’agevolazione fiscale per chi ha intenzione di stabilire una propria filiera oltre i confini nazionali».

Fonte: Economy Magazine

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